domenica 12 gennaio 2014

Salviamo la famiglia

Cara Famiglia, ti scrivo come si scriverebbe ad un’amica cara, ad una persona amata e preziosa, ad un amore autentico. Ho seguito le vicende che ti vedono protagonista in questo periodo ed ho compreso che la tua situazione non è delle più serene e soprattutto il tuo ruolo è seriamente messo in discussione. Ho avvertito la tua fragilità già da molto tempo quando, con il crescere delle separazioni e dei divorzi, hai dovuto faticare non poco per non cedere sotto i colpi di chi ti voleva già perduta. Oggi nuovi attacchi minano il tuo stato, nuovi “paladini” laici dalle aperte vedute vogliono liquidare con tutta fretta la tua istituzione per lasciar posto ad una brutta copia di convivenza plurima.
So quanto stai soffrendo e lottando per garantire a molti figli, grandi o piccini, la certezza di continuare a nascere e crescere al fianco di mamma e papà, con un uomo/padre ed una donna/madre, unici genitori indiscutibili ed insostituibili. “Le braccia di suo padre si protendevano come una promessa invisibile e la bimba perdeva la paura di lanciarsi nel vuoto…, la madre la sosteneva e la proteggeva come fa la terra con i suoi porti…” A noi figli, come scrive D’Avenia, servono due paia di sicure braccia: uno dolce, generoso ed avvolgente capace di accogliere le nostre cadute e le nostre fragilità, l’altro robusto e forte in grado di lanciarci verso la vita e il mondo.
Lo so, cara Famiglia, non mancano per te i giorni di grande fatica, quelli in cui anche chi ha il coraggio di schierarsi al tuo fianco per difenderti subisce attacchi e ripercussioni. Ricordo, non molto tempo fa, la ritrattazione di un notissimo imprenditore alimentare che venne accusato di omofobia, perché nei suoi spot pubblicitari utilizzava solo modelli tradizionali di famiglia. Le polemiche montarono su più fronti e la notizia venne strumentalizzata da molte associazioni che considerano “famiglia” ogni unione di due persone anche dello stesso sesso.
A volte, cara Famiglia, ti vedo allo sbando, bistrattata da chi ti vorrebbe diversa e snaturata sino all’inverosimile come in alcuni paesi del nord Europa o del Canada. In nome di non si sa  bene quale libertà, molta gente crede che basti l’unione di due persone per originare famiglia e figli, ma le tue fondamenta debbono necessariamente avere radici profonde e soprattutto “naturali”, le tue basi vanno poste solo sulla roccia. Solo un uomo ed una donna possono generare una creatura e non sarà mai sufficiente l’amore (a volte mascherato da puro egoismo) di due persone per far crescere in modo sereno un bambino, un figlio, un futuro uomo. Mi sento in grado di poter esprimere questo parere con tutta la fondatezza del caso, perché anch’io ho dovuto fare i conti con una famiglia mutilata sin dalla mia primissima infanzia e non è per nulla semplice crescere con un pilastro in meno, con un passo zoppicante e manchevole. Si incede fragilmente e a fatica e spesso si è sottoposti a sofferenze non calcolabili.  Posso quindi ben immaginare come possa essere ben più grave sentirsi il figlio di due donne o di due uomini definiti per convenienza “genitore A” e “genitore B”.
Non sentirti però sola, cara Famiglia, mentre scrivo a te e di te, accanto ai tuoi rivali si sta alzando un grido forte di difesa e con esso si sta schierando un nutrito popolo che ti sostiene e ti alimenta con il suo affetto. Un popolo deciso a far sentire la TUA voce, la TUA presenza e l’unicità della tua essenza. Non avere paura mia cara Famiglia, conosco tanti giovani che continuano a guardare a te come unica ed autentica genesi su cui poggiare le basi di una società migliore, confida in loro che sono il tuo futuro.
Cara amata Famiglia, non temere le ore buie che verranno, abbi invece la speranza e poi la certezza che tu non potrai MAI avere fine, perché solo là dove un’unione è benedetta da Dio, risiede l’autentica e la sola verità.
by Maria Bonacina
Articolo tratto da Teen Reporters

domenica 5 gennaio 2014

Il ritratto di Dorian Gray

Se un pittore dovesse creare un dipinto per rappresentare e, in qualche modo, immortalare le impressioni suscitate dalla lettura de ‘’Il ritratto di Dorian Gray’’ su una tela, probabilmente utilizzerebbe il rosso e il bianco come colori principali.Il rosso perché simboleggia la passione, la voglia di vivere, ma anche la turpitudine e la degradazione morale. Il bianco perché rappresenta l’ingenuità e l’innocenza delle creature che non hanno ancora avuto modo di confrontarsi con il mondo circostante.Questi due colori sono in grado di formare una commistione tra il sacro e il profano, la virtù e l’abiezione.Dorian Gray, giovane ragazzo londinese dotato di una straordinaria bellezza, è il protagonista di questo turbinio di pulsioni.Tuttavia, queste ultime non sorgono spontaneamente dal suo cuore, ma gli sono suggerite dalla malia che circonda i discorsi di Lord Henry Wotton. Egli riesce a far leva sulla personalità ancora troppo fragile di Dorian, che rimane affascinato dalle sue stravaganti teorie.Lord Henry, tramite aforismi e paradossi, spalanca davanti agli occhi di Dorian un mondo costellato dall’incessante ricerca della bellezza e della forma, intesa come unico mezzo attraverso il quale è possibile comprendere la realtà.Basil Hallward, pittore affermato della città londinese, nutre quasi una venerazione nei confronti di Dorian. Egli diventa la sua fonte d’ispirazione. Non a caso, l’opera forse più bella di Basil è quella che ritrae Dorian in tutta la sua straordinaria bellezza.Il quadro, concepito da una mente attratta dall’idea di unire arte e forma, si rivelerà fondamentale per le sorti del protagonista.Dorian, estasiato dalla grandiosità dell’opera, esprime il desiderio di restare sempre giovane e di proteggere il proprio corpo dall’invecchiamento dovuto all’età affidando al quadro il compito di sopportare il peso degli anni.
Le colpe del protagonista si riversano sull’opera di Basil, trasformandola in una sordida rappresentazione dell’animo di Dorian, ormai lontano dall’innocenza e dalla purezza di un tempo.
Egli, infatti, si allontana da Basil e Lord Henry, con i quali aveva un forte legame di amicizia, e si avvicina sempre più all’immoralità e alla dissolutezza.
Oscar Wilde descrive l’epilogo della vicenda attraverso alcune delle più belle pagine della letteratura di tutti i tempi.
La sfrenata ricerca del piacere conduce sempre e in ogni caso all’ineluttabile sconfitta dell’esecutore di tale azione.
Sembra essere questo il messaggio ultimo de ‘’Il ritratto di Dorian Gray’’.
Per comprendere a fondo il messaggio del romanzo  è opportuno considerare l’epoca in cui è stato scritto.
Oscar Wilde, nato a Dublino nel 1854, in piena epoca vittoriana, dovette confrontarsi con una morale ipocrita legata alle convenzioni sociali ed al disprezzo da parte della borghesia delle classi meno abbienti.
Tutto ciò influì certamente nella vita dell’autore, il quale si contraddistinse per l’atteggiamento anticonformista e antivittoriano.
Wilde considerava la vita come una meravigliosa opera d’arte, relegando di fatto la vita stessa al ruolo di imitatrice della perfezione artistica.
Secondo lo scrittore inglese, infatti, non è l’arte ad imitare la vita ma è proprio la vita ad imitare l’arte. Questo è uno dei concetti chiave sui quali si fonda il movimento dell’Estetismo, corrente letteraria e artistica in cui la celebrazione del culto della bellezza assume un’importanza fondamentale.
Un altro caposaldo del movimento è riassunto nella frase “Art for art’s sake” [L'arte per il gusto dell'arte] in cui l’espressione artistica è intesa come rappresentazione di se stessa.
In realtà, l’Estetismo fu anche definito come la ”pseudo religione del bello” in quanto i suoi principi ruotano attorno ad un fulcro costituito da un non ben precisato valore di bellezza.
Molto spesso, l’esteta fonda la propria vita sull’edonismo e prova ribrezzo per i ceti inferiori.
Tuttavia, l’arte non è questo, non rappresenta né il disprezzo per gli uomini né la folle ricerca dei piaceri.
L’arte è uno dei tentativi effettuati dall’uomo per avvicinarsi alla perfezione, per cercare di arrivare ad un ideale di bellezza assoluta.
Da questo deriva la grande responsabilità dell’artista nei confronti degli uomini.
Responsabilità che si traduce nell’impegno morale da parte di esso nel trasmettere dei messaggi senza ledere la dignità altrui.

Per uno scherzo del destino, la richiesta di Dorian viene esaudita.
Tuttavia, il mito raggiunto dell’eterna giovinezza coincide con l’inizio di una vita caratterizzata dall’edonismo e dallo sfacelo morale.
by Mario Rindone
Recensione tratta da CogitoetVolo

sabato 4 gennaio 2014

Una famiglia perfetta

Italia 2012, 120’
Genere: CommediaRegia di: Paolo Genovese Cast principale: Sergio CastellittoClaudia GeriniMarco GialliniCarolina CrescentiniEugenia CostantiniEugenio FranceschiniFrancesca NeriIlaria OcchiniMaurizio Mattioli
Tematiche: famiglia, amore, recitazione, Natale


Natale in famiglia per il cinquantenne Leone. Peccato che, quella, non sia la sua famiglia. E che lui non ne abbia una vera...

Una famiglia serena si accinge a festeggiare il Natale, in una splendida villa immersa nella campagna umbra: una nonna con i nipoti, una coppia di sposi, gli zii in arrivo… Ma è così perfetta quella famiglia? E perché il capofamiglia non accetta quel figlio, grasso e occhialuto, con tale violenza (verbale)? Perché quella non è la sua famiglia, ma un gruppo di attori che recitano una parte, in modo che l’uomo – solitario e scostante – possa passare le feste natalizie con una parvenza di famiglia e non da solo.
Tratto liberamente dal film spagnolo Familia (1996) di Fernando León, Una famiglia perfetta è una piacevole sorpresa: parte come una commedia frizzante e piena di battute, con ritmo pimpante e con attori molto in forma (strepitosi Sergio Castellitto e Marco Giallini, molto affiatati come già in La bellezza del somaro), prosegue con riflessioni sul recitare e sul rapporto tra cinema e vita; infine, chiude in maniera sorprendente e anche (in parte) natalizia. In mezzo, l’idea che un copione sorregga tutti i personaggi della storia: non solo chi recita per mestiere. Arroccati in quella casa da sogno e nello schema protetto delle decisioni già fissate a priori, i personaggi vedono però irrompere la realtà nella persona di una donna che ha litigato con il fidanzato (sposato…) e cerca ospitalità: lei rimarrà sconvolta da cose che non riesce a comprendere (intravedendo incesti e adulteri dove non ci sono), ma il suo arrivo sarà dirompente anche per i componenti della “famiglia perfetta”, perché il copione scritto non può più bastare. Tanto che qualcuno inizia a “improvvisare”. 
I caratteri sono tutti ben delineati, nel film di Paolo Genovese che dopo la bella prova di Immaturi (e il suo meno riuscito sequel, che pure aveva alcuni spunti interessanti) fa un passo avanti con un altro film corale che alterna comicità, tensioni tra esseri umani e uno sguardo finale positivo che cerca una “ripartenza”. Castellitto nei panni di Leone è un perfetto misantropo, abituato a star da solo ma che non sopporta la solitudine a Natale tanto da “affittarsene” una; Giallini è Fortunato, il capocomico deliziosamente nevrotico, diviso tra moglie e amante ma in fondo più sensibile di quanto vorrebbe dare a pensare; la Gerini, per una volta inappuntabile, è credibile in un ruolo di donna che si lamenta del marito ma ha un segreto mai svelato; e poi la Crescentini, sempre più sicura di sé, la strepitosa Ilaria Occhini (“nonna” dalle mille risorse artistiche, che insegna ai giovani i trucchi del mestiere: davvero una spanna sopra gli altri, nella finzione e nella realtà); i due bambini attori – il “professionista”, esilarante fin dal suo ingresso al ralenty, e il timido occhialuto “protestato” – e perfino i due ragazzi più giovani, Eugenia Costantini e Eugenio Franceschini: che sembrano meno all’altezza degli altri, ma in fondo è giusto così; se la prima è una presuntuosa attricetta ancora inesperta (che sentenzia, come tante colleghe vere, “finzione? per me recitare è la vita”, e fa danni in entrambi gli ambiti…), il secondo sa di essere un mediocre ma ha solo ambizioni limitatissime (entrare nella casa del Grande Fratello o, se non ci riesce, tornare a un lavoro “normale”) e quindi a lui sta bene così. Infine, in due piccoli ruoli, Francesca Neri nella parte della donna che irrompe nella villa addobbata a festa e Maurizio Mattioli in un cameo al solito divertentissimo (ma quant’è bravo, l’attore romano per eccellenza?).
Una famiglia perfetta è, nell’originalità dell’idea iniziale e nella struttura, fortemente debitore al film spagnolo, mai uscito in Italia (che diede già vita a un modesto remake americano con Ben Affleck e James Gandolfini,Surviving Christmas da noi rititolato Natale in affitto). Ma aggiunge all’originale qualità visive e registiche più spiccate, un ritmo molto più brillante e attori decisamente in forma. È una commedia di gran classe, consapevole e ambiziosa nella messa in scena e nella sua voglia di intrattenere e divertire sì, ma anche di andare a colpire precisi bersagli: come il desiderio di autonomia e indipendenza dal prossimo e uno sguardo sulla famiglia lucido e positivo. Mentre lo sfondo natalizio, se può sembrare solo funzionale a un’uscita nel periodo più ricco per il cinema (ma siamo a distanze siderali dalle varie “Vacanze a… di De Sica e compagnia), permette in realtà di arricchire, forse inconsapevolmente, con simboli e suggestioni (la Messa di mezzanotte, carica di tensioni ma anche di un senso di inquieta ricerca di senso), una storia già piena di spunti interessanti. Che poi è il segreto delle migliori commedie, genere in cui il cinema italiano è stato maestro per decenni: far divertire e poi, quasi a tradimento, cambiare di tono e colpire al cuore lo spettatore. 


by Antonio Autieri
Recensione tratta da Sentieri del cinema

giovedì 2 gennaio 2014

Steve Jobs, un uomo che ha saputo osare

“Grande innovatore e visionario”. Con queste parole il presidente americano Barack Obama, a seguito della sua scomparsa,  rende omaggio a Steve Jobs, fondatore dell’azienda informatica Apple. Oggi viene ricordato come colui che lanciò il primo personal computer insieme a molto altro, tributandogli un merito ambito da molti, raramente con successo: avere contribuito a cambiare  il mondo ed in particolare il modo in cui ognuno di noi guarda lo stesso. Molti sono coloro che lo paragonano al celebre progettista italiano Leonardo da Vinci, reputato una delle personalità più geniali dell’umanità: entrambi, benché in ambiti diversi, sono stati infatti definiti dei“visionari”. Leonardo poiché ha saputo immaginare che l’uomo sarebbe riuscito a volare, mentre Steve Jobs poiché ha reso l’informatica materia di dominio collettivo da patrimonio riservato a pochi. Ognuno esprime il suo pensiero su quest’uomo, che però non è stato solo uno dei principali attori della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, ma anche l’uomo che ha tenuto uno dei discorsi più belli e toccanti diffusosi su scala mondiale grazie ad Internet. In questo memorabile discorso risalente al 2005, Jobs si rivolge ai neolaureandi della prestigiosa Università di Stanford, consegnando loro una sorta di “testamento spirituale“ che egli riassume nell’enigmatico monito “Stay hungry. Stay foolish” (“Restate affamati. Restate folli.”) pronunciato nella parte finale. L’inventore statunitense, traendo spunto dalle proprie vicende personali, esorta i giovani a perseguire i propri ideali, ad aver fiducia nelle proprie intuizioni, insomma a non perdere mai la curiosità e l’ambizione, anche se all’apparenza folle. Egli ci ha spinto più che mai ad ascoltare il nostro cuore e le nostre inclinazioni, e cosa più importante ci ha insegnato la capacità di saper sognare e, con la stessa forza, la capacità di reagire alla distruzione dei sogni, in una parola ad “osare”. Dobbiamo credere in qualcosa, avere passione per ciò che facciamo perché solo in questo modo rendiamo grande il nostro lavoro e solo alla fine, guardando indietro, scopriremo che la vita è fatta di puntini che si sono uniti. Era un genio, ma prima di tutto un uomo la cui esistenza è stata caratterizzata da grandi successi così come inevitabili fallimenti, che egli ha saputo tradurre in forza costruttiva in nome di ciò che amava e in cui credeva. Egli ricorda infatti la sua mancata laurea, il licenziamento dall’azienda da lui stesso creata, la diagnosi infausta della malattia, ponendo inaspettatamente la sua attenzione sugli aspetti positivi di queste vicende. Quest’uomo ci ha trasmesso l’importanza di imparare dai nostri insuccessi: il fallimento non deve essere visto come un marchio infamante, bensì come un mirabile tentativo di reazione agli ostacoli della vita.
Nel leggere e rileggere tale discorso traspare non solo una esortazione ai giovani a vivere, sognare, sperare, credere ed impegnarsi nel futuro, ma soprattutto l’amore per una vita che gli stava inevitabilmente sfuggendo di mano. Lui sì che era affamato come dovremmo essere tutti noi della vita, quasi bulimico tanto da fargli affermare “se vivrai ogni giorno come se fosse l’ultimo, sicuramente una volta avrai ragione”. Lui sì che è rimasto folle e visionario fino alla fine, continuando a creare pur sapendo che il tempo a sua disposizione era ormai limitato, quasi cadenzato. Quest’anima ribelle e geniale non ci ha lasciato solo un modo nuovo di comunicare, ma la ricorderemo anche per la sua filosofia di vita che solo le grandi menti fanno propria. Rimarrà un esempio da seguire soprattutto per noi giovani, un’icona nella quale chiunque potrà identificarsi, un “grande innovatore e visionario” ma prima di tutto un grande uomo.
by Francesca Bardari
Articolo tratto da TeenReporters

Un saluto

Già da lontano, chissà per quale strana coincidenza, alzando lo sguardo dal marciapiede, riconosco una figura familiare, sicuramente vista da qualche altra parte. Non so in quale parte della mia vita inserire quel volto: giunge a scuotermi, come un’eco dall’infanzia, una semplice domanda: dove l’ho già visto?  Compagno delle elementari, amico dell’oratorio, compagno di calcio o di atletica; rapidamente cerco la corrispondenza di quella fisionomia che mi suggerisce un momento indefinito del passato; provo a inserire quel volto che ho davanti nei mille frammenti dei ricordi cercando, come con una tessera di un puzzle, la sua giusta collocazione… aspetta, illuminazione! Ci conosciamo, andavamo alla stessa scuola materna, abbiamo riso e giocato insieme. Però, quando le nostre strade si rincontrano, i nostri sguardi si allontanano, un occhio guarda per terra, l’altro assorto nel nulla. Come se non ci conoscessimo, anzi peggio. E c’è quella voce ingannevole che, nel nostro intimo, ci difende: “È passato troppo tempo perché mi riconosca… ma è proprio lui?”
E le strade si ridividono, come se i padroni del destino avessero fallito nel loro intento; come se quei giorni lontani dell’infanzia siano stati una parentesi di quella storia che si chiama vita; come se quella vecchia conoscenza sia una fantasia di qualcuno.
Ci si potrebbe chiedere se è una semplice differenza tra educazione e il suo contrario, ma non credo che sia necessario il Galateo per capire che basta un cenno, un movimento della mano, un sorriso, per ricordare ciò che il tempo travolge, e di moto in moto, trasforma in niente.
Dimenticare, è molto pericoloso. Far finta di dimenticare, è orribile, è ciò che di più brutto può fare la nostra mente quando gioca con la memoria: distrugge i bei ricordi, anzi li tiene in vita, ma imbavagliati.
Dopo trenta secondi i miei pensieri sono già altrove, quel volto dell’amico di infanzia è già stato scartato dalla mia mente; eppure ho perso un’occasione, una di quelle speciali. Sono stato avaro di un saluto, geloso di un sorriso; così egoista da non dire neanche un misero “ciao”. Che vergogna!
Potevo fare due risate, un abbraccio per ricordare la nostra amicizia, potevo chiedere di sua sorella, chissà che grande ora! Potevo informarmi della sua vita: cosa studia, come si trova, che passioni ha, che sogni ha… anzi, gli avrei chiesto il numero di cellulare per organizzare una “birretta”. Magari avrei scoperto che è cambiato completamente, che ha nuovi desideri e una nuova voce. Avrei scoperto forse che ha un altro fratellino e che sua sorella è già sposata. Avrei anche imparato cose nuove. Magari ora è appassionatissimo di architettura e  avremmo parlato per ore dei suoi e dei miei progetti: li avremmo messi a confronto, mi avrebbe spiegato le nuovissime tecnologie per costruire grattacieli immensi o ponti lunghi chilometri. Mi avrebbe trasmesso il suo desiderio di aprire uno studio di architettura, ma prima di tutto di costruire una bella famiglia. Mi avrebbe raccontato anche dove vorrebbe andare a vivere e molto altro ancora, con un entusiasmo unico e contagioso. Infine, con gli occhi lucidi, mi avrebbe descritto le mille difficoltà che deve affrontare in famiglia e le preoccupazioni per il suo futuro; poi mi avrebbe anche rivelato, abbassando il tono della voce, come per dire un segreto che fosse solo per me e di cui mi chiedeva di essere un leale custode, che tutto ciò che mi aveva confidato erano soltanto sogni, difficili o quasi impossibili. Allora avrei riscoperto una meravigliosa amicizia, lo avrei abbracciato, lo avrei rassicurato, gli avrei dato forza, lo avrei ringraziato di tutto quello che mi aveva raccontato; e tutto questo avrebbe mosso qualcosa dentro di me, ne sono sicuro.E invece sono andato avanti per la mia strada, chiuso nella mia solita vita.Potevo salutare un vecchio amico e invece sono rimasto solo, potevo ascoltare e chiacchierare con una cara persona e invece sono rimasto chiuso e zitto, potevo rassicurare un amico in difficoltà e invece mi sono rinchiuso nel mio egoismo, potevo scoprire anch’io tante cose nuove e invece sono rimasto incollato alle mie poche e fragili sicurezze.
Sì, ora ho capito quanto siano preziose le persone, quanto siano fondamentali le relazioni e le vere e vecchie amicizie.
Che felicità uscire dal nostro abituale egoismo e conoscere, imparare e aiutare gli altri! In questo mondo opportunista e utilitaristico, pronto a catturare con la forza solo ciò che è vantaggioso per se stesso e ciò che dà un guadagno materiale, quanto sarebbe bello riscoprire la forza e la ricchezza che ha un gesto di gratuità, di semplice e pura amicizia.

Ma ora ho capito.
by Dante Mazzacani
Articolo tratto da Cogitoetvolo

sabato 9 novembre 2013

Quando la cultura chiude per crisi

La scure della crisi sembra non risparmiare niente e nessuno, anche quando di mezzo c’è il settore librario. Dopo lo sfratto dell’Istituto Nazionale di Studi Filosofici, la chiusura dell’Edenlandia e il rogo della Città della Scienza qualcuno dalle mie parte dice che Napoli continua a perdere pezzi. Io, “ingenuamente”, dico che l’unica a perdere pezzi (e non solo a Napoli) è la cultura.
Dopo 95 anni di ininterrotta attività toccherà anche alla libreria Guida, “bene di interesse culturale tutelato dallo Stato e nel Patrimonio Unesco”, chiudere i battenti. Verrebbe quasi da ridere leggendo parole del genere in un momento in cui non sembra esserci nessuno disposto a tutelare un “Patrimonio” di tale portata. E a pensare che il luogo caro a Benedetto Croce, Jack Kerouac, Allen Ginsberg, punto d’incontro dei protagonisti della Beat Generation, ritrovo per studenti e amanti dei libri, aveva, appena un anno fa, perso un’altra sorella, la libreria Guida-Merliani con sede al Vomero. Oggi che la stessa sorte tocca alla maggiore, nata nel cuore pulsante della città, lo sdegno di Napoli è vibrante, lo si legge nei volti dei passanti o nei commenti increduli di chi ha appena appreso la notizia.
Non mancano, tuttavia, promesse o interessanti iniziative. Il Vicepresidente della Regione, Guido Trombetti, spera che venga salvata la Saletta Rossa, simbolo della cultura di Napoli e faro illuminato nei decenni dai più alti esempi della nostra cultura, una saletta che per tutto il novecento ha ospitato e accolto i più importanti scrittori italiani e stranieri. Le istituzioni sembrano muoversi con una strategia ad hoc per tutelare i locali storici della città, anche il primo cittadino si fa carico della questione e ribadisce la sua massima disponibilità per salvaguardare attività storiche che rischiano il tracollo. Staremo a vedere se queste, come tante altre, sono solo parole o se effettivamente una libreria, come una sartoria  o una bottega, simboli storici di una città, possano finalmente ritenersi salve.
Intanto la questione passa ai social dove si susseguono incitamenti, petizioni, parole stracolme di sfiducia, malcontenti nei confronti dell’amministrazione e dispiacere, tanto dispiacere, per un patrimonio della città che si sta sbriciolando lentamente.
Ma la crisi libraria apre un’altra riflessione, quella sul mercato del libro che, dati alla mano, naufraga a vista d’occhio: si legge sempre meno e – come ribadisce il signor Guida in un’intervista – viene meno quella classe media che acquistava almeno un libro a settimana. Forse a venir meno non è solo la classe media è, semmai, la voglia di trovare del tempo da dedicarsi leggendo. Ma – mi chiedo – verrà meno allo stesso modo il tempo per l’estetista, per internet e i cellulari? Quanto può costarci un’ora di lettura in un’intera giornata? Non costa nulla eppure potrebbe darci (e dare) tanto.
Leggere è un passatempo che richiede fantasia, immaginazione, tempo – appunto – ma anche cuore, generosità. Un gesto che, se compiuto da ciascuno di noi, eviterebbe la vendita, anzi, la svendita, dell’intero patrimonio editoriale di librerie che non riescono più a sostenere le spese. E se leggere è un atto di generosità allora è anche un aiuto, il più rilevante, da offrire, nel piccolo, alla nostra libreria, al nostro paese, al nostro Stato.

Articolo di Domenico Cassese pubblicato su Cogitoetvolo

lunedì 19 agosto 2013

Divisi dalla guerra, si sposano dopo 70 anni

La vita ha provato a dividerli, ma non c’è riuscita: era destino che finisse così. Era destino che Bob Humphries e Bernie Bluett si sposassero. Un destino che, come di solito capita solo nei romanzi, ha coronato l’antico sogno di due innamorati che, probabilmente, nemmeno ci credevano più. Dopo essersi conosciuti negli anni della Seconda guerra mondiale, infatti, Bob e Bernie si persero di vista: lui da una parte, lei dall’altra; lui in guerra, lei in patria. Inutile – come per il protagonista del celebre The Notebook di Nicholas Sparks – fu il tentativo di invio di lettere da parte di Bob: venivano sequestrate prima della consegna e Bernie non le lesse mai. Così i due giovani presero strade diverse: entrambi si sposarono e lui traslocò addirittura in Nuova Zelanda.
Divisi per sempre, o almeno così sembrava. Poi il destino ha fatto sì che entrambi, rimasti vedovi, si siano ritrovati e abbiano deciso di sposarsi. Chissà quante cose avranno da dirsi Bob e Bernie, oggi che hanno rispettivamente 89 e 87 anni; quanti ricordi avranno da condividere, quante esperienze da raccontarsi e, soprattutto, quanta emozione da scambiarsi, da vivere. Perché la loro è una storia davvero da romanzo: la vita ha provato a dividerli, e per parecchio sembrava esservi riuscita, ma alla fine non ce l’ha fatta. E i due giovani inglesi che decenni fa si erano persi di vista contro la loro volontà, ora possono abbracciarsi con la certezza che quello vissuto tanti anni prima non era un’avventura, la classica storia fra adolescenti confusi e un po’ ingenui, no: era davvero l’amore della loro vita.
Articolo tratto da giulianoguzzo.wordpress.com